Alcune specie di api - già sotto la lente di ingrandimento per la “sindrome da collasso della colonia”, la moria catastrofica di impollinatori che affligge gli alveari di America ed Europa - hanno sviluppato un incredibile adattamento alla plastica, al punto da usarne frammenti per costruire le celle in cui deporre le uova
La plastica ha colonizzato ogni angolo del Pianeta. Non sono da meno alcune sostanze chimiche di sintesi, ormai integrate nel tessuto ecologico che avvolge le comunità umane, ed animali. Ma che alcune specie di api - già sotto la lente di ingrandimento per la “sindrome da collasso della colonia”, la moria catastrofica di impollinatori che affligge gli alveari di America ed Europa - abbiano sviluppato un adattamento alla plastica al punto da usarne frammenti per costruire le celle in cui deporre le uova è una novità finora fuori scala. Alcuni ricercatori di Toronto, Canada, hanno in effetti osservato questo comportamento in due specie, laMegachile rotundata, che di solito opta per le foglie ed è stata osservata montare il proprio alveare anche con pezzi di polietilene (i sacchetti di plastica, appunto, su circa lo 0,85% % delle celle analizzate), e la Megachile campanulae, che sembra in grado di abbinare alla resina naturale raccolta dagli alberi un collante sintetico come il poliuretano (sullo 0,74% del campione).
Secondo Scott McIvor, che ha curato il protocollo di ricerca, i nidi di queste api, in cui sono nate regolarmente le nuove pupe, potrebbe riflettere un tratto adattativo necessario per la sopravvivenza in ecosistemi ormai dominati dall’impronta umana. “Abbiamo avuto questo riscontro su qualche migliaia di api - spiega McIvor - Potrebbe trattarsi anche di un comportamento aberrante, o dell’assenza nelle immediate vicinanze dei materiali usati tradizionalmente. Ma noi pensiamo che l’uso della plastica potrebbe anche suggerire che certe specie di api esprimono una inedita flessibilità nella costruzione dei nidi, che potrebbe aiutarle in ambienti nuovi o modificati”.
Se fosse così, le api subirebbero una pressione selettiva già all’opera nello sbozzare le colonie del futuro in una terra di confine tra ambienti naturali e periferie di città. Sia la rotundata che la campanulae di norma costruiscono le arnie per la deposizione delle uova in cavità all’interno dei tronchi degli alberi, o sui rami; ma l’alveare spunta anche in luoghi progettati dall’uomo, come le recinzioni e le fessure tra i mattoni. L’ape rotundata mastica la polpa vegetale delle foglie per produrre la malta con cui plasma le celle del suo alveare. A Toronto ha aggiunto il polietilene dei sacchetti di plastica, anche se non aderisce adeguatamente alla materia organica. La plastica potrebbe compromettere i livelli di umidità dell’alveare, ma all’opposto fungere come protezione dall’infestazione di parassiti. Secondo McIvor e il suo gruppo il fatto che la plastica sia comunque stata scelta dalle api potrebbe dimostrare che la struttura dell’alveare è più importante della sua composizione chimica. La capacità di rispondere alle sfide ambientali potrebbe in futuro marcare una differenza di specie tra le api che riusciranno ad interagire con efficacia con i prodotti umani in contesti non più selvaggi (i “vincitori urbani”, come li definisce McIvor) e quelle che invece eviteranno i paesaggi antropici.
Perché anche per le api il problema sempre più urgente è trovare habitat ancora in grado di offrire loro nutrimento e spazio adatto alla riproduzione. La ricerca di Toronto mostra fino a che punto una specie può essere costretta a scendere a patti con la nostra. I giornali californiani sostengono che ormai “le api spendono ore on the road”, intendendo che gli impollinatori in movimento su vaste distese di monocolture segnate da corridoi in asfalto a traffico intenso non hanno più a disposizione il mosaico di prati, aree cespugliose e boschi in cui posarsi, suggere nettare e poi ripartire alla volta dei campi di ortaggi e frutta da fecondare.
I cambiamenti ambientali e lo stress da adattamento che le api stanno subendo fanno la loro parte nella generale contrazione del loro numero un po’ ovunque. Secondo una ricerca su 17 Paesi membri dello European Union Reference Laboratory For Honeybee, il vecchio continente perde 1/3 delle sue api da miele ogni anno. L’agricoltura industriale ha intaccato la vita delle api, prima di tutto perché ha sfigurato il paesaggio a cui 30 milioni di anni di selezione evolutiva le aveva preparate.
“Le api hanno subito cambiamenti immensi - spiega Diego Pagani, apicoltore biologico della Val Chidone, provincia di Piacenza, tra i massimi in Italia, e presidente del CONAPI (Consorzio Nazionale Apicoltori) - Fino agli anni Cinquanta sentivano il profumo dei fiori a 1,5 Km di distanza, adesso lo devono captare da 300 Km per effetto dell’inquinamento. Gli agenti chimici impiegati in agricoltura funzionano come una barriera tra loro e i fiori”. La capacità di adattamento descritta a Toronto dipende dalla estrema velocità del tasso riproduttivo: “Un’ape vive 40 giorni, gliene occorrono 21 per nascere. In una sola stagione ci sono più generazioni, il ricambio è altissimo”.
Pagani non ha dubbi: l’ambiente incontaminato non esiste più nemmeno in Italia e la perdita di biodiversità riguarda anche la scomparsa di prati e siepi non coltivati, inghiottiti dalle monocolture. “L’agricoltura estensiva e l’uso di sostanze di sintesi sono alla base del collasso delle api. In California, nella zona di Sacramento, famosa per le piantagioni di mandorle, devono comperare le api dalla Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti ormai un alveare costa 150 dollari, qui in Italia siamo a 25 euro. Negli anni ’20 del Novecento gli americani avevano 9 milioni di api, oggi ridotte a 1 milione e mezzo, lo stesso numero che vive nel nostro Paese. Un’ape può volare per 3 Km, ma poi deve posarsi e nutrirsi. Una condizione che in California è diventata quasi impossibile”. Con questa realtà al suolo si confronta anche un apicoltore biologico come Pagani, che si attiene ad uno schema dal carattere rigorosamente territoriale: nessuna discarica in un raggio di 5 Km dalle arnie, nessuna fabbrica entro 3 Km, niente colture estensive in vista e strade solo oltre 1 km. Le api dovrebbero avere a disposizione solo porzioni di bosco ad acacie spontanee ed erba medica non trattata. Eppure, anche quelle di Pagani qualche volta muoiono sulle corolle dei girasoli spruzzate di insetticidi di sintesi.
Un recente studio condotto dall’Università della North Carolina uscito su Science sembra confermare che la varietà di tipologie di api che volano su una coltura può condizionare anche la quantità dei raccolti. Per Federica Ferrario responsabile Campagna Agricoltura Sostenibile di Greenpeace Italia “il primo fattore di declino delle api è l’uso di insetticidi. Nel 2013 la EU ha stabilito una moratoria di due anni su tre tipi di nicotinoidi, ma il pacchetto più vasto delle cause di questa moria è l’agricoltura industriale nel suo complesso, che implica anche, parlando di impollinatori, l’eliminazione di habitat e rifugi. Le monoculture innescano fenomeni a effetto domino che diventano poi difficili da gestire perché impoveriscono l’ambiente. In California i cocktail di sostanze di sintesi sono sempre più spesso inutili, al punto che si ritorna alla zappa per estirpare le erbacce”.
Greenpeace sta premendo perché l’Europa avvii un piano di monitoraggio completo degli impollinatori e propone una strategia di interventi molto semplici, ispirati, come ripete Ferrario, al buon senso di una volta: “Rotazione delle colture, per togliere ai parassiti il tempo di sviluppare resistenze sempre più intrattabili agli insetticidi; filari di siepi per dare rifugio ad api e bombi, ripristino di habitat semi naturali nelle aziende agricole come aree di compensazione ecologica”. La plastica spuntata negli alveari di Toronto, i mandorli della California e gli alveari biologici di Pagani non sono così distanti. La nostra capacità di gestire, o condannare, una gruppo di specie limita la resilienza dell’ecosistema umano globale ai cambiamenti climatici e alla trasformazione del Pianeta in una nuova nicchia ecologica. Apicoltori e agricoltori sono destinati a diventare gli alleati di ecologi e conservazionisti. Suona come un paradosso, ma un ambiente più selvaggio sarà la migliore polizza assicurativa per la produzione di cibo su scala continentale.
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